Hanno detto… sul numero 35, novembre 2021 • anno 3

Amedeo Lepore
Gli esiti del G20 e della COP26, insieme al rilancio del processo di ripresa economica e unificazione europea, confortano i passi concreti – pur con le loro incongruenze – compiuti in quest’ultimo periodo di tempo. Bisogna proseguire in questa direzione, guardandosi anche dalle fughe in avanti di un ambientalismo irriducibile e solo ideologico, che rischierebbe di far rivivere la logica della decrescita.
Questa impostazione è improponibile in un mondo nel quale non sono l’austerity, il risparmio di risorse finanziarie o nuove povertà, indotte dalla rinuncia a un più diffuso benessere, a determinare il grado di sostenibilità ambientale e sociale, ma un modello di crescita inedito. Il paradigma innovativo si basa sugli investimenti produttivi e sullo sviluppo economico, incoraggiati dalle istituzioni pubbliche e realizzati dalle imprese private. In questo quadro, l’incrocio tra bioeconomia e innovazione tecnologica, tra valorizzazione delle risorse biologiche e modernizzazione dell’apparato produttivo è evidente ed è l’aspetto caratterizzante della quarta rivoluzione industriale, oltre che della doppia transizione in corso (verde e digitale).

Alessandro Forlani
Occorrerebbe dare tempo al tempo e consentire al governo di proseguire il proprio impegno fino alla scadenza naturale della legislatura (2023). Questo non significa che si debba auspicare necessariamente la preclusione dell’avvento di Draghi alla Presidenza della Repubblica. La sua è certamente la candidatura più autorevole e potenzialmente più idonea a raccogliere un ampio consenso tra i grandi elettori dei diversi schieramenti. E anche in caso di sua elezione, si potrebbe trovare il modo di preservare l’attuale maggioranza, con un altro premier, magari anche lui tecnico.
Il quadro complessivo suggerirebbe, comunque, di preservare, fino alla conclusione naturale della legislatura, l’attuale composizione della maggioranza, senza ulteriori avventure dall’esito incerto. Questo, almeno, allo stato dei fatti.

Ettore Rosato
Il progetto delle liste riformiste deve ora prendere una dimensione nazionale. Su questo il contributo di Italia Viva è determinante, come già dimostrato nell’ultimo appuntamento elettorale, nel quale i nostri candidati hanno ottenuto le preferenze maggiori guadagnando consiglieri e assessori nelle giunte di diverse città, tra cui Milano e la stessa Napoli.
Queste elezioni sono state la conferma che un’alleanza riformista attorno all’agenda Draghi non solo è praticabile ma necessaria. Esiste infatti un elettorato molto ampio, che non si riconosce nella politica urlata, negli estremismi e nel populismo, un’area liberale, moderata nei toni che bene sta rappresentando proprio Draghi a Palazzo Chigi.
Credo che il suo arrivo nelle istituzioni abbia segnato un nuovo inizio. Dobbiamo lavorare per costruire il campo centrista che sappia raccogliere questa eredità in modo da continuare il lavoro che si sta iniziando oggi, anche nella prossima legislatura.

Giuseppe Basini
Dobbiamo abituarci all’idea che, un po’ in tutto l’occidente, l’astensionismo è stato sempre più alto che in Italia, per cui ci stiamo probabilmente adeguando. Poi, gli elettori non convinti delle candidature non hanno votato per il partito avverso, non hanno proprio votato. La Lega è un partito, in cui hanno democratica rappresentanza diverse posizioni (la mia è liberale ed europeista), proprio per la sua natura di partito popolare nato tra il popolo, ma è estremamente coeso, perché i leghisti tutti ritengono di avere una grande responsabilità nei confronti della Nazione, data la – a nostro giudizio – completa inaffidabilità di una sinistra tutt’ora prigioniera dei pregiudizi del passato. Ritengo sia bene mantenere, non tanto semplicemente il maggioritario, quanto l’uninominale, perché esiste il problema della governabilità, della qualità e della indipendenza della rappresentanza, che l’uninominale aiuta maggiormente a risolvere, come dimostrano tante nazioni occidentali e la nostra stessa storia parlamentare ai tempi del Regno.

Paolo Lembo
La scorsa estate, ancora una volta, l’Afghanistan ha clamorosamente riaffermato la sua secolare reputazione di tomba degli imperi.
Quale sarà la prossima vittima? Saranno i cinesi a seguire i greci, i mongoli, gli inglesi, i sovietici, gli americani? Parte della stampa internazionale sembra aver indicato proprio questa ipotesi, alludendo alla inevitabilità della espansione egemonica cinese nell’ area afgana, come una delle conseguenze della recente uscita di scena americana.
Personalmente ne dubito.
E dubito anche che il ritiro americano si possa considerare come una espressione di debolezza (alludo al ritiro come decisione politica, non alle sue modalità, indubbiamente disastrose).
I veri motivi erano certamente altri e molteplici. Probabilmente connessi con il potentissimo apparato industrial-militare, che continua a costituire la più influente propulsione politica negli Stati Uniti. Comunque erano motivi strettamente connessi alla politica interna, più che internazionale degli Stati Uniti.

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