La riforma dello Statuto del contribuente, una delusione

Il Parlamento si accinge a discutere e ad approvare una importante riforma fiscale, contenuta nel disegno di legge delega, licenziato dal Governo qualche settimana fa.

In particolare, l’art. 4 del testo prevede il potenziamento di alcuni principi già esistenti e l’inserimento di altri nella legge 27 luglio 2000, n. 212, nota come Statuto del contribuente. Non tutto però va nella giusta direzione di maggior tutela del contribuente stesso. Una novella che soprattutto i Garanti del contribuente, presenti nelle singole regioni italiane, da tempo auspicavano. Si è lontani però da quella radicale rivisitazione, che si imporrebbe dopo 22 anni dall’entrata in vigore dello Statuto e che trova già in alcuni testi la sua formulazione. Non ci si aspettava certo una rilettura in chiave costituzionale, che elevasse lo Statuto, o alcune norme in esso contenute, appunto a rango costituzionale, come era negli auspici dei suoi padri fondatori, ma qualcosina in più. Resterà quindi un complesso di norme, con l’aggiunta di altre, che hanno ed avranno (avrebbero e dovrebbero poter avere) una cogenza maggiore rispetto a quelle ordinarie. Invero, con il richiamo agli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, l’art. 1 dello Statuto stabilisce: “Le disposizioni della presente legge costituiscono principi generali dell’ordinamento giudiziario tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”. Una norma di indirizzo che, non avendo il carattere della primarietà, si colloca in una posizione intermedia e, se pur superiore a quella ordinaria, sostanzialmente ha pari valenza nella gerarchia delle norme. È questa la ragione che ha consentito, al legislatore ed all’Amministrazione Finanziaria, di effettuare non rare violazioni di alcuni dei principi sopra enunciati, quali la chiarezza e la trasparenza delle disposizioni tributarie, l’uso frequente e disinvolto del decreto legge, la irretroattività delle norme tributarie, ecc.

La parziale delusione è rapportata alla totale assenza di alcun riferimento alla Giustizia tributaria, che ha subìto recentemente un ulteriore vulnus alla sua indipendenza. Invero la legge 130/22 ha approvato frettolosamente e senza un’articolata discussione parlamentare, che la materia richiedeva, nel periodo estivo (31 agosto 2022), un’ampia riforma della Giustizia tributaria, definita epocale. In parte, purtroppo, lo è. È stata introdotta la figura del magistrato tributario addetto alle Corti di giustizia tributaria, vincitore di concorso, modificando la precedente composizione eterogenea delle Commissioni tributarie, nelle quali confluivano e confluiscono più professionalità (magistrati, avvocati, commercialisti, ecc.). Il legislatore ha ritenuto questa soluzione la panacea di tutte le problematiche che affliggono la giustizia tributaria, tralasciando però di eliminare la vera criticità, riconducibile ad una collocazione antistorica e non rispettosa delle garanzie che la Costituzione pone a tutela di tutte le giurisdizioni sul piano dell’indipendenza e della autonomia. Si lascia ancora nelle mani del Ministero dell’Economia e Finanze, che è parte sostanziale in quasi tutti i procedimenti tributari, il potere di indirizzo e di controllo sul funzionamento di questa giustizia. Anzi, la nuova legge concede spazi di manovra più ampi che consentono al MEF più incisiva ingerenza.

Chi scrive ha sempre ritenuto e sostenuto che fino a quando non si arriverà ad una riforma costituzionale che inserisca nell’art. 103 della Costituzione, insieme alle altre giurisdizioni speciali (amministrativa, contabile e militare, tutte facenti capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri) anche quella tributaria, qualsiasi riforma non avrà mai il respiro costituzionale che questa merita.

Poiché una modifica del genere non è a portata di mano, sarebbe estremamente opportuno non perdere l’occasione che questa legge delega ci offre (in cui appare alquanto manifesta la volontà politica di rafforzare le garanzie del contribuente), per introdurre un principio che in qualche modo sostituisca, o quanto meno colmi in parte, detta carenza costituzionale. In definitiva un principio che dovrebbe imporre al Governo delegato l’obbligo di predisporre tutti gli strumenti necessari, con l’abolizione degli elementi condizionanti, per assicurare una giustizia tributaria totalmente indipendente, attribuendo ai magistrati tributari le stesse guarentigie che l’art. 108 della Costituzione riserva ai giudici speciali.

Non può dubitarsi infatti che quello tributario sia un giudice speciale, che ha ben poco da condividere con quello onorario, malgrado spesso venga così definito. Molteplici le ragioni che militano per questa tesi.

Il giudice tributario è titolare di una giurisdizione piena ed esclusiva su ogni tributo di qualsiasi genere e specie, comunque denominato. A quello onorario viene attribuita una fetta di giurisdizione che appartiene al giudice ordinario. Non esistono giudici onorari presso altre giurisdizioni. Non incide, sotto questo profilo, neppure la inopportuna distinzione che la legge 130 opera tra il magistrato (così qualificato il futuro vincitore del concorso previsto per l’ingresso nella magistratura tributaria) ed il giudice tributario già esistente, che continuerà a svolgere il suo ruolo, fino al raggiungimento dell’età che impone la cessazione dal servizio. Tra questi ultimi vi sono giudici togati e non togati il cui status rimarrà immutato. L’incarico di giudice tributario è a tempo indeterminato (fino al compimento dei 75 anni d’età, ora ridotti a 70). Quello onorario è per definizione a tempo determinato. La giustizia tributaria ha un suo organo di autogoverno (CPGT) ed ogni giudice è titolare del diritto di elettorato attivo e passivo. Per la giustizia onoraria non è previsto alcun organo di autogoverno; del giudice onorario si occupa una commissione del CSM. Li accomuna soltanto la inesistenza del rapporto di servizio e la possibilità di svolgere un’altra attività professionale, elementi che non intaccano il ruolo del giudice nel momento in cui esprime la volontà della giurisdizione, quale terzo potere dello Stato. Malgrado il possesso di questi ed altri requisiti, la indipendenza, anche quella apparente non meno importante, del giudice tributario resta offuscata, anzi compromessa da questo vincolo con il MEF, altamente condizionante, che deve essere rimosso.

Anche l’assordante silenzio che investe la figura del Garante del contribuente, nel testo dell’art. 4 lascia una notevole delusione, soprattutto in considerazione del fatto che sui nuovi principi introdotti e su quelli esistenti diversamente puntualizzati, deve sorvegliare il Garante stesso.

Uno di questi ultimi è l’autotutela. Tra le varie attribuzioni che l’art. 13 dello Statuto conferisce al Garante vi è quella di attivare le procedure di autotutela nei confronti di atti amministrativi di accertamento o di riscossione notificati al contribuente. Non si è mai data un’interpretazione univoca alla parola “attiva”. Ci si aspettava una chiarificazione. In effetti, la prassi che si è introdotta svilisce questo potere del Garante. Avviene infatti, nella maggior parte dei casi, che la richiesta di attivazione dell’autotutela da parte del contribuente viene formulata prima all’ufficio e, solo nell’ipotesi di rifiuto, viene investito il Garante. È chiaro che quest’ultimo, privo, com’è noto, di poteri decisionali, rispetto ad una presa di posizione già adottata dall’ufficio, ha ulteriori minori spazi di manovra. È indispensabile che la legge delega affronti questo problema e stabilisca un criterio o un principio che attribuiscano al Garante un potere più incisivo. La soluzione potrebbe essere quella di prevedere l’inoltro della richiesta di autotutela in via esclusiva al Garante, dotando però il suo ufficio di adeguati supporti di personale, mezzi e strutture.

In ogni caso si registra con vera soddisfazione il previsto potenziamento dell’esercizio del potere di autotutela, esteso alle ipotesi di errori manifesti nonostante la definitività dell’atto, di impugnabilità del diniego o del silenzio nei medesimi casi ed infine delle valutazioni di diritto e di fatto operate.

Tra i principi già esistenti, di cui l’art. 4 prevede il potenziamento e che dovrebbero trovare la condivisione di tutti, perché sempre finalizzati ad una maggiore tutela dei diritti del contribuente, vanno segnalati:

1) l’obbligo di rafforzare la motivazione degli atti impositivi, anche mediante l’indicazione delle prove;

2) la valorizzazione del principio del legittimo affidamento del contribuente e quello di certezza del diritto;

3) una disciplina generale del diritto di accesso agli atti del procedimento tributario;

4) una disciplina generale delle invalidità degli atti impositivi e degli atti della riscossione.

Per ognuno di questi argomenti occorrerebbe un’analisi approfondita, che ci si riserva di fare quando sarà aperto il dibattito nelle competenti Commissioni parlamentari.

Ma quella che consentirebbe, in maniera più incisiva, di raggiungere l’obiettivo auspicato è la introduzione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, a pena di nullità. È un principio (invocato da tempo) in linea con l’ordinamento europeo che si è espresso sia sul piano ordinamentale che giurisdizionale. Significativi provvedimenti hanno ripetutamente affermato che il diritto al contraddittorio si configura come sviluppo procedimentale del diritto di difesa. Anche la nostra Corte Suprema di Cassazione, sia pure in maniera molto discontinua, ha ribadito la centralità ideologica e sistematica del contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario, espressamente qualificandolo come principio generale dell’ordinamento interno. Va ricordata infine la recente sentenza n. 46/23 della Corte Costituzionale che, pur ritenendo non fondata la questione di costituzionalità sollevata, ha rivolto un pressante invito al legislatore ad introdurre l’obbligo del contraddittorio, la cui assenza non è più coerente con l’evoluzione dell’intero sistema tributario. L’obbligo, precisa ancora la Corte, deve essere applicabile a tutte le tipologie di accertamenti tributari. Il principio non può più essere messo in discussione, per cui ci si augura che questa sia la volta buona nonostante il ritardo. Bisogna però stare all’erta. Non vi è, sembra, condivisione unanime.

Un totale dissenso va espresso invece sull’inserimento del principio che tende a scoraggiare l’uso dell’interpello di cui all’art. 11 dello Statuto, subordinandone l’ammissibilità “(…) al versamento di un contributo da graduare in relazione a diversi fattori, quali la tipologia del contribuente o il valore dell’istanza, finalizzato al finanziamento della specializzazione e della formazione professionale continua del personale delle Agenzie fiscali”. L’utilizzo, sia pur a fin di bene, delle somme incassate con il suddetto contributo, non giustifica la ratio posta a fondamento dello stesso a pena di inammissibilità. Non convince soprattutto la graduazione del suo ammontare in relazione alla tipologia del contribuente, tipologia la cui scelta evidentemente viene fatta dagli uffici in base ad un totale potere discrezionale. Il richiamato art. 11, nel prevedere che il contribuente possa interpellare l’amministrazione finanziaria, per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali ivi ipotizzate, ha posto le basi per la costruzione di un dialogo tra fisco e contribuente. Detto dialogo trova la sua logica conseguenza applicativa nel principio della collaborazione e buona fede, sancito nel precedente art. 10 e che per altro verso, come si è visto, si intende potenziare. Subordinare l’uso del contraddittorio alle condizioni suddette comporta delle discriminazioni certamente non presenti nello Statuto sul cui rispetto il Garante del contribuente deve sorvegliare.

Angelo Gargani

magistrato, Garante del contribuente del Lazio, Presidente Associazione Garanti del contribuente

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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