La regolamentazione dell’uso dell’intelligenza artificiale tra tecnologia e pensiero tecnico

Di recente è stato detto e scritto che nella scienza che sfugge di mano sarebbe dato di avvertire i segni della fine, per qualcuno addirittura la fine dell’umanità. Non so e confesso di non possedere gli strumenti ermeneutici per maturare una opinione definitiva al riguardo.

Quel che avverto è che dietro le acquisizioni straordinarie legate all’uso dell’intelligenza artificiale, che consentono, ad esempio, di alleviare molte sofferenze umane, si cela un che di sconosciuto e inquietante che si manifesta talora attraverso degli indicatori che disvelano un’alterazione di forze e di equilibri tra l’uomo e la natura.

Siamo abituati a pensare al ruolo della tecnica come strumento per l’uomo al fine di governare o se si vuole assoggettare la natura.

Sono sempre più incline a credere che tutto il problema sia in una sorta di inversione alla quale si è dato di assistere negli ultimi decenni. Non più la tecnica al servizio dell’uomo, ma la tecnica che rischia di assoggettare l’uomo.

Mi rendo conto che l’affermazione ha, per chi come me è cultore della scienza giuridica, un tono quasi fantascientifico e poco spiegabile perfino se, ad esempio, la si legge sotto la lente del serrato ed elevatissimo dialogo di qualche anno fa tra Emanuele Severino e Natalino Irti.

A ben vedere però si tratta di una constatazione non così filosofica ed impalpabile, ma riguarda ciò che possiamo toccare con mano, a cominciare dalla ricaduta diretta sul sistema e sull’ordinamento giuridico. Dire che la tecnica rischia di asservire l’uomo e che si è invertito il rapporto tecnica-uomo-natura, vuol rappresentare il dato per cui la tecnica è divenuto ‘pensiero’, pensiero, oltretutto, al di sopra del quale non c’è più nulla.

Tutti noi tendiamo ad incorrere in un errore di prospettiva, che è quello di confondere la tecnica con la tecnologia, con l’artefatto, con il software o con il dispositivo, l’hardware.

Non è quella la tecnica che suscita incognite e con la quale dobbiamo misurarci.

La battaglia su Chat GPT, ad esempio – non me ne voglia il Garante che meritoriamente l’ha avviata -, pur assolutamente necessaria, sembra comunque una battaglia di retroguardia. Il problema non sta nella tecnologia che è una rappresentazione mondana e transeunte della tecnica, la tecnologia è caduca, è scienza applicata. Il problema, come detto, non sta lì e non potrà essere risolto finché non affronteremo la questione di fondo, che è quella del pensiero tecnico.

Codici etici, regole europee, tentativi di imbrigliare l’uso dell’intelligenza artificiale sono tutti palliativi, perché tutto il problema è nel pensiero che la concepisce.

Il pensiero tecnico ha all’evidenza un obiettivo ed è esso stesso un obiettivo: quello di produrre incessantemente scopi e di realizzarli in modo indifferenziato.

Il pensiero tecnico ha come scopo quello di occupare la nostra mente, di sostituirsi al pensiero umano e questo scopo lo sta perseguendo con successo, perché a ben vedere sta tecnoformando il nostro pensiero. Sta facendo in modo che il nostro pensiero sia esattamente quello che la tecnica vuole. Il pensiero tecnico deve intercettare dall’interno la vita psichica dell’uomo perché quest’ultimo non gli opponga alcun ostacolo, meno che mai di tipo morale. Questo implica che si impadronisca della volontà perché essa deve essere volontà di accettare, appunto, indifferenziatamente l’offerta tecnologica. Per far ciò il pensiero tecnico, dopo aver operato dall’interno, ci seduce dall’esterno, affascinandoci col ritrovato, col dispositivo, con la tecnologia, appunto.

Lo sforzo dell’uomo, se così è, deve essere quello di concepire un pensiero che si ponga al di sopra del pensiero tecnico, governandolo e ripristinando l’equilibrio turbato. Lo sforzo è però immane perché si tratta di ritrovare un equilibrio tra l’avidità della tecnica che è volontà di potenza e l’avidità del capitalismo che è ideologia avvinta inestricabilmente alla tecnocrazia.

Di qui, l’esigenza di restituire alle categorie del dover essere il ruolo che è loro proprio, al diritto e prima ancora ai fondamenti assiologici che lo sorreggono, non avendo timore di riscoprire anche la funzione etica di molti istituti giuridici, chiamati a governare un fenomeno che apparentemente sfugge a quasi tutte le tradizionali e per noi rassicuranti concettualizzazioni.

Fabrizio Criscuolo

ordinario di diritto privato, Università La Sapienza di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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