Istruzione e merito: una polemica incomprensibile

Sempre più di frequente la dialettica politica assume contorni e contenuti che rivelano quanto essa rischi di essere fine a sé stessa, segnando un allarmante distacco dall’esperienza quotidiana.

È il caso della polemica seguita all’adozione della nuova denominazione del Ministero dell’istruzione e alla scelta di aggiungere in essa l’esplicito riferimento al merito.

Da taluno, come è noto, si è sostenuto che il richiamo al merito rappresenti un attacco alla scuola dell’eguaglianza, nella misura in cui premiare il merito possa recare con sé l’accettazione del rischio di lasciare indietro gli studenti meno dotati, soprattutto per ragioni di disagio economico e sociale. Niente di più fuorviante.

Ciò che più sorprende, invero, è che una siffatta argomentazione provenga anche da personalità della cultura e da ambienti che solitamente invocano la Costituzione repubblicana quale ultimo baluardo a difesa di derive verso modelli sociali forieri di diseguaglianze e sopraffazioni, giacché i concetti di capacità e merito sono centrali proprio nella disciplina costituzionale riservata alla scuola e all’istruzione.

Giova infatti ricordare che l’art. 34 della Carta, ai commi 3 e 4, afferma perentoriamente che «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (comma 3) e che «la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso» (comma 4).

È fuor di dubbio che nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della Costituzione, stagione difficilmente comparabile per fervore e per moralità ad altre fasi della nostra storia recente, l’affermarsi del diritto allo studio e il riconoscimento del merito segnarono una vera e propria rivoluzione sociale. Per la prima volta ragazzi provenienti da ceti non abbienti, superando un sistema di regole saldamente operanti nella società prebellica, hanno avuto accesso alla scuola. Figli di famiglie contadine avevano l’opportunità di vincere ogni differenza sociale, accettata e tramandata dagli stessi genitori, attraverso l’affermazione di una nuova gerarchia di valori, non più fondata sul diritto di nascita ma sul vigore dell’intelligenza.

La scuola iniziava a rappresentare per i giovani una scoperta quotidiana, che consentiva e stimolava avventure della mente attraverso una sana competizione che li preparava alle sfide della vita. Fin dalla scuola elementare s’imponeva il culto dello studio e perfino quello della memoria che, alla scuola media, esplodeva nel mandare a mente lunghi brani delle opere più significative della nostra letteratura.

Ma la prova più importante era rappresentata dal tema in classe, nel quale lo studente esprimeva ad un tempo il risultato del suo sforzo e lo stadio di maturità progressivamente attinto attraverso di esso.

Lo sforzo richiesto allo studente sembrava severo, e tra il professore e l’allievo correva un’intesa che non si esauriva sul piano della trasmissione del sapere, ma era anche la base dell’educazione dei sentimenti.

Tra quella scuola e la scuola di oggi la differenza è abissale. La scuola di oggi ha infatti anzitutto perso la sua severità e a me pare che ciò sia una perdita grave. Gli esami di riparazione non esistono più e il passaggio dell’anno scolastico è ormai un diritto da far valere nei tribunali.

Le carenze che lo studente accumula negli anni della scuola primaria si manifestano drammaticamente nelle superiori e nelle università e queste ultime sono prive di ogni strumento per poterle colmare. Recenti statistiche fanno emergere un quadro assai allarmante: vi sono zone del Paese in cui un’altissima percentuale di giovani fa fatica a comprendere un testo scritto.

Assai significativa al riguardo la realtà portata alla luce da recenti vicende concorsuali finalizzate a selezionare interi pezzi di classe dirigente. L’esito dell’ultimo concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria, in cui non è stato possibile coprire tutti i posti messi a bando a causa della gravità degli errori grammaticali e sintattici riscontrati nelle prove scritte, dovrebbe costituire un campanello d’allarme circa la gravità del quadro attuale.

È in questo contesto che va invocato ed attuato l’art. 34 della Costituzione: in esso, il diritto allo studio non è inteso come una estensione a tutti di un risultato assicurato, come un’attuazione assoluta ed indiscriminata di una malintesa idea di eguaglianza, ma come una parità di trattamento a condizioni simili, di merito ed economiche. Nei servizi forniti dallo Stato, dalle Regioni e dai Comuni non può ravvisarsi discriminazione tutte le volte che un trattamento particolare si giustifichi sulla base del merito individuale e delle condizioni economiche concrete. La stragrande maggioranza della dottrina costituzionale ha sostenuto, nel tempo, che il diritto a raggiungere i più alti gradi degli studi mediante il godimento delle provvidenze, di cui al quarto comma dell’art. 34 spetta esclusivamente ai capaci e ai meritevoli privi di mezzi, giacché per coloro che dispongono di mezzi propri il diritto è già effettivo in ragione delle norme che disciplinano il libero accesso alla scuola.

Sempre nella prospettiva costituzionale, capacità e merito non sono requisiti alternativi, bensì complementari, nella misura in cui il merito appaia come il risultato del profitto, cioè del lavoro. Di quel sacrificio, in altri termini, di cui la società contemporanea ha disperso il senso e il valore più profondo.

Da questo punto di vista, coloro che hanno alimentato la polemica di cui si discorre sembrano non avvertire la gravità delle conseguenze che il rifiuto del merito reca con sé sul piano della funzione che il sistema dell’istruzione assume nell’ambito delle istituzioni di un Paese.

In un saggio di qualche anno fa, un grande intellettuale francese affermava che la scuola deve anzitutto fornire allo studente lo strumento per cogliere il primato determinante della lingua nel definire e sostenere “il destino de la nation” e concludeva che in Francia esiste una “continuità diretta tra scuola e nazione”. Purtroppo, con l’insensata polemica sul merito, parte della nostra classe politica ha mostrato ancora una volta le proprie profonde ed insanabili contraddizioni e la più assoluta inettitudine a percepire e valorizzare questi irrefutabili nessi di continuità.

Fabrizio Criscuolo

ordinario di diritto privato, Università La Sapienza di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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