Il punto sul vaccino anti COVID-19

In Italia, a fine aprile, i decessi direttamente ascrivibili all’epidemia COVID-19 superano la soglia dei 27 mila mentre alcune stime, forti delle statistiche nazionali, disegnano, per l’intero mese, un quadro ancora più tragico, con un aumento della mortalità variabile dal 40 al 90 per cento rispetto agli anni passati. Eppure, il 4 maggio, dopo circa due mesi di lockdown, arrivano una parziale ripresa delle attività produttive e un leggero allentamento delle limitazioni individuali. Quanto manca ancora per poter tornare alla vita di prima della pandemia COVID-19?

Un ritorno alla normalità piena, vista l’alta infettività del nuovo coronavirus, potrà realizzarsi in presenza di almeno una delle due condizioni seguenti. La prima prevede che il tasso di letalità (il rapporto percentuale tra il numero di morti per una patologia e quello dei colpiti dalla stessa) in un determinato lasso di tempo, raggiunga un valore decisamente più basso rispetto a quello attuale attestato intorno al 10 per cento. La seconda condizione passa attraverso la cosiddetta immunità di “comunità” ed è affidata alla scomparsa della malattia COVID-19 o alla sua raggiunta inoffensività.

È chiaro, quindi, che l’implementazione di terapie e di vaccini efficaci e sicuri gioca un ruolo determinante nell’alleggerimento del carico dell’infezione da virus SARS-CoV-2 sulla salute pubblica e, quindi, sul ritorno alla normalità. Presto, per fortuna, il completamento dei primi studi clinici controllati ci fornirà alcune evidenze su questa patologia, sugli aspetti quali-quantitativi delle sue complicanze, sui modi per scongiurarle fronteggiandone gli sviluppi ai primi sintomi con diagnosi sempre più tempestive e affinando gli approcci terapeutici nel tentativo di ottimizzarne il rapporto rischi/benefici. Purtroppo, però, gli orientamenti prevalenti nella comunità scientifica suggeriscono cautela, avvertendo che solo una strategia preventiva basata su una immunizzazione estesa potrà porre fine a quello che molti avvertono come un incubo.

In questo quadro dai contorni ancora non ben delineati, continua a susseguirsi, accanto alle notizie dei preoccupanti report ufficiali sulla crisi pandemica generata dal virus SARS-CoV-2, una messe battente di fake news. Ogni giorno, sul web, si registra il dilagare infodemico di vere e proprie “bufale” improntate soprattutto a logiche complottistiche. Tant’è, gli sforzi portati avanti da alcuni soggetti internazionali per l’implementazione di piattaforme tecnologiche e logistiche mirate allo sviluppo veloce di vaccini come contromisura universale a future minacce microbiche, invece di riscuotere il plauso per il loro concorso alla soddisfazione del bisogno urgente di una immunizzazione di massa, divengono lo spunto per argomentazioni superficialmente capziose, con possibili effetti devastanti non solo sulla salute pubblica ma anche sulle politiche di cooperazione.

L‘impegno profuso da enti pubblici, statali, interstatali, dalle associazioni filantropiche e di volontariato, da qualche anno, è sotto il mirino di attacchi violenti di singoli o di consorterie populiste che, alimentando pregiudizi e paure, propinano fake news su risultati scientifici e protagonisti delle scoperte. Così, alcuni enti, motivati dalle istanze di numerosi scienziati allarmati dall’alta probabilità di nuove infezioni trasmissibili, hanno trovato una casa comune nella fondazione CEPI (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations). Lanciata a Davos nel 2017 per superare l’incapacità dei singoli soggetti a rispondere prontamente a minacce epidemiche di portata globale, il CEPI si è caricato dell’onere di coordinare e promuovere iniziative di preparedness e di risposta tempestiva. Anche la liaison statunitense tra Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) e ateneo Duke per la creazione di una piattaforma tecnologica di sviluppo vaccinale virus-agnostica (in grado cioè di contrastare in breve tempo virus emergenti) è stata fatta bersaglio di attacchi su presunte cospirazioni segrete contro l’umanità. Insomma, anche  importanti studi virologici di dominio pubblico, frutto di collaborazioni internazionali tra Cina, Europa e Usa, di per sé lodevoli per la lungimiranza e lo sforzo congiunto, divengono complotti per realizzare armi biologiche contro l’umanità.

Un vaccino richiede investimenti finanziari consistenti in forza lavoro e organizzazione. Qual è il suo scopo? Indurre nei riceventi lo sviluppo di cellule immunitarie “della memoria”, abili nel contrastare un determinato microrganismo in caso di infezione naturale. È una sorta di sessione di addestramento per il nostro sistema immunitario che impara una tecnica di contrasto specifica contro un preciso microbo. Appena il nostro organismo incontra un nuovo agente infettivo, mette in campo subito una risposta immunitaria non specifica. Almeno una settimana dopo, assistiamo invece a una seconda ondata di reazione, stavolta specifica nei confronti di singole porzioni (chiamate antigeni) del parassita. Le cellule effettrici di questa fase sono i linfociti T e B. Già prima dell’infezione, queste cellule hanno superato un processo di ricombinazione del loro DNA a livello dei geni delle immunoglobuline (anticorpi) – nel caso dei linfociti B – o di speciali recettori che rimangono adesi alla loro superficie (nel caso dei linfociti T). Questo processo rende unica ogni cellula linfocitaria, definita, a questo stadio, “naïve”. Gli anticorpi o i recettori prodotti da questa, sono potenzialmente in grado di legarsi, in modo univoco, a un determinato antigene. Quando e se questo accade, i pochi linfociti con specificità contro l’antigene vanno incontro a replicazione cellulare per formare il clone, una progenie numerosa di cellule effettrici. Nella maggior parte dei casi, questa reazione è risolutiva e determina, con l’annientamento del nemico, la guarigione. Un esiguo numero di cellule di questa progenie clonale entra quindi in uno stato di quiescenza e longevità relative dando vita, appunto, a linfociti “di memoria” mentre la maggior parte delle cellule effettrici muore, evitando il “fuoco amico” di un eccesso di difesa che può essere distruttivo. Le cellule “della memoria” si riattivano velocemente nel caso di una seconda infezione dello stesso microbo, conferendo l’immunità.

Per indurre artificialmente questa complessa serie di eventi e generare una protezione duratura senza indurre la malattia stessa, possono essere inoculati virus integri ma inattivati chimicamente oppure attenuati nella loro virulenza. In alternativa, si può fare entrare in contatto il sistema immunitario con i singoli antigeni. Nel caso di SARS-CoV-2, la proteina S è l’antigene-bersaglio ideale per stimolare la produzione di anticorpi neutralizzanti e di recettori killer specifici. I singoli antigeni possono essere, perciò, prodotti in vitro per poi essere iniettati. Un’altra strada prevede l’inoculazione di virus innocui nei quali è stato incastonato l’antigene attraverso metodiche di ingegneria genetica. Esistono già vaccini formulati in questi modi e approvati per uso umano. I loro processi di produzione, già implementati, potrebbero ora facilmente essere attivati su scala industriale.

Una più recente modalità di immunizzazione, invece, prevede la produzione degli antigeni da parte delle nostre stesse cellule nelle quali viene introdotto il materiale genetico che codifica i primi. I vaccini con materiale genetico (DNA o RNA) utilizzano queste due molecole come vettori dell’informazione necessaria alla produzione dell’antigene. Per progettarli è sufficiente conoscere le sequenze virali che codificano gli antigeni e costruire dei modelli di interazione con l’ospite. Nonostante questi vaccini a DNA o a RNA offrano evidenti vantaggi in termini di rapidità di progettazione e di messa in scala a livello industriale, non sono stati ancora approvati per uso umano, richiedendo, prima della distribuzione, laboriose prove di sicurezza lungo il processo produttivo.

L’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) pubblica, con scadenza quasi giornaliera, la lista dei vaccini candidati contro COVID-19. L’elenco include, finora, un centinaio di ricerche in sperimentazione preclinica e ben otto studi clinici su volontari già in corso. Due di questi utilizzano vettori virali per introdurre l’antigene. Uno è della CanSino Biological cinese; l’altro è prodotto in partnership dall’Istituto Jenner dell’Università di Oxford e dalla Advent, una biotech con laboratori in Italia, i cui primi risultati su mille partecipanti sono attesi per questo mese di maggio. Sempre cinesi sono altri tre studi che utilizzano virus SARS-CoV-2 inattivato, iniettato da solo o insieme con un adiuvante che ne potenzia l’immunogenicità. La somministrazione di RNA per indurre la sintesi dell’antigene da parte delle cellule dei vaccinandi  è invece studiata in due trial clinici, uno registrato in Europa e capitanato dalla Pfizer e l’altro portato avanti in collaborazione tra il National Institute of Allergy and Infectious Diseases americano e la company Moderna, sua conterranea. Alla categoria dei vaccini a DNA appartiene infine il prodotto della Inovio Pharmaceuticals, che ha già firmato una partnership per la produzione industriale con la tedesca Richter-Helm BioLogics.

Sono molteplici i fattori che determinano un certo grado di aleatorietà sia sui tempi sia sul successo di questa corsa al vaccino. L’impossibilità di prevedere i livelli di efficacia e di sicurezza di un preparato sperimentale prima di attenti studi clinici è infatti dirimente e la sperimentazione sull’uomo potrebbe subire rallentamenti o battute di arresto proprio a causa delle misure non farmacologiche messe in atto. Riducendo drasticamente le probabilità di contagio per i volontari vaccinati, si potrebbe incappare nel paradosso del distanziamento sociale che si trasforma in un freno della capacità di analisi statistica sul grado di protezione eventualmente conferito dal vaccino. Per questo la scelta dei volontari sui quali condurre la sperimentazione è indirizzata verso le fasce di popolazione più esposte al contatto con il virus, in primis gli operatori sanitari.

Sono tantissimi i vaccini oggetto di studio contro il nuovo coronavirus e l’ampiezza della ricerca accresce le chances di successo. Quel che sembrava impossibile fino a qualche anno fa, proprio grazie alla scienza, previdente, coraggiosa e paziente insieme, combinata con sforzi collaborativi senza precedenti, potrebbe divenire realtà, tanto che qualcuno confida, se tutto filerà liscio, che entro Natale avremo il vaccino come regalo sotto l’albero.

Mario Picozza

immunologo cellulare, ricercatore presso l’Unità di Neuroimmunologia - Fondazione Santa Lucia, Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

© Copyright 2024 | Dimensione Informazione
Tutti i diritti riservati

Privacy Policy Cookie Policy Cambia preferenze

Contatti:
Viale Giuseppe Mazzini, 134 - 00195 Roma
Telefono: 06.37516154 - 37353238
E-mail: redazione@dimensioneinformazione.com