L’agroalimentare fra impronta ambientale e salvaguardia della salute

Un’impresa è “sostenibile” quando crea valore “condiviso”: insieme al valore economico, interesse dell’azionista e del management, genera valore per tutti gli altri attori coinvolti dalla sua attività. Contribuisce al miglioramento delle condizioni ambientali e sociali, operando in maniera trasparente e verificabile dall’esterno. Nel 2015 le Nazioni Unite hanno fissato un’agenda di 17 grandi obiettivi per il miglioramento del pianeta e dell’umanità che tutti gli attori (non solo le imprese, per altro) devono impegnarsi a raggiungere. Questo approccio implica che le strategie competitive devono essere pensate ed attuate in modo integrato con le linee di azione per creare valore ambientale e sociale, sulla base di una governance di elevata qualità.

A tal fine, è essenziale comprendere le interdipendenze tra le scelte di business, quelle organizzative e quelle negli ambiti “ESG” (environment, social and governance). Questo principio vale tanto per le imprese, quanto per gli organi di governo, che sempre più indirizzano in modo stringente l’azione degli attori economici nella direzione della sostenibilità. In questi anni, l’Unione Europea ha particolarmente accelerato sul fronte ambientale e della tutela del consumatore; è essenziale che i regolamenti, le direttive e le politiche dell’Unione Europea siano impostate in modo organico, considerando le implicazioni tra gli effetti economici, ambientali e sociali e trovando un adeguato bilanciamento. Una misura che migliora molto sul fronte ad esempio ambientale, ma generando effetti negativi sul piano della competitività delle imprese o dell’equilibrio sociale, non può essere considerata efficace. È ovvio che un perfetto equilibrio non può essere raggiunto; è, però, essenziale limitare al massimo le possibili distorsioni, soprattutto tra categorie di imprese o tra aree geografiche. Di conseguenza, per promulgare un regolamento o una direttiva si dovrebbe prima disporre di una robusta misurazione del suo impatto complessivo su tutti gli ambiti in cui ha effetto e dei vantaggi e svantaggi generati sulle diverse categorie di soggetti coinvolti. Nel caso tale misurazione mostri esternalità negative o effetti distorcenti tra i soggetti significative, la norma dovrebbe essere modificata o quantomeno dovrebbero essere previsti meccanismi compensativi.

Il settore agroalimentare è un importante banco di prova di questo approccio. Sta affrontando sfide molto complesse: la sicurezza alimentare, la drastica riduzione dell’impatto ambientale dei suoi processi produttivi e distributivi; il continuo miglioramento dei prodotti, in termini non solo di qualità ma anche di effetti sulla salute delle persone. Su questi fronti, l’UE ha avviato un complesso di politiche “pesanti” e ad ampio spettro, che però rischiano di ampliare il divario tra i grandi Gruppi internazionali e le micro, le piccole e le medie imprese. I primi, infatti, hanno quelle capacità finanziarie, organizzative e di innovazione per adeguarsi che le altre, salvo eccezioni, non hanno. E questo si riflette sul piano geografico, determinando grave svantaggio per i Paesi dove il tessuto produttivo è costituito in prevalenza da micro e piccole-medie imprese con modelli produttivi eccellenti sul piano della qualità del prodotto finale, ma “tradizionali” e quindi non sempre ottimali sul piano ambientale. Le piccole e piccolissime imprese sono in termini numerici la massima parte del settore agricolo e della trasformazione alimentare, rappresentano quindi anche un attore sociale, in particolare nei territori periferici dove hanno spesso anche notevole rilievo produttivo. Imporre loro norme accettabili per grandi gruppi internazionali è evidentemente inefficace e miope; anzi potrebbe indurre a pensare che tali norme siano volte proprio per favorire questi ultimi a danno delle PMI; altro rischio da scongiurare.

La riduzione dell’impronta ambientale e la salvaguardia della salute del consumatore cui le politiche europee tendono sono naturalmente del tutto condivisibili. Tuttavia, per scongiurare il concreto rischio di creare distorsioni, è necessario verificare che esse siano realmente adeguate a creare valore condiviso per tutti gli attori in gioco ed in tutti i Paesi dell’Unione. Occorre innanzi tutto una valutazione (basata su metodologie scientifiche) dell’impatto complessivo di ogni specifica azione; un’analisi attenta, che evidenzi e possibilmente quantifichi insieme ai benefici anche gli svantaggi causati a carico di determinati soggetti (tipologie di imprese, filiere produttive, territori). Una politica, che non prevede modalità consistenti per bilanciare le esternalità negative che causa, non può essere considerata realmente sostenibile, nel senso che è sostenibile solo per alcuni e non per altri. Nell’architettura regolatoria che si sta configurando per l’agroalimentare devono essere previste misure specifiche e margini di adattamento per renderla valida per tutte le tipologie di imprese e filiere produttive. Del resto, l’efficacia di una norma (come anche la probabilità che essa sia rispettata) dipende dalla capacità di ciascun soggetto coinvolto di incorporarla nei propri comportamenti, considerarla equa e derivarne un vantaggio complessivo. Vantaggio che può anche non arrivare subito per tutti, ma deve essere manifesto e condiviso almeno nel medio termine. In conclusione, le politiche per il comparto agroalimentare devono certamente stimolare le imprese a migliorare l’impatto ambientale delle proprie produzioni, migliorare il loro valore nutrizionale, ma anche e nella stessa misura favorire il rafforzamento della loro efficienza produttiva e capacità di competere in mercati dominati dai grandissimi gruppi globali.

Matteo G. Caroli

Professore Luiss Business School - Presidente “Alleanza per la silver economy”

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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