
L’abuso di ufficio è stato il reato più controverso ed allo stesso tempo più stimolante per il dibattito dottrinale e la produzione giurisprudenziale, essendo una delle figure criminose maggiormente esaminate e criticate tra i reati contro la pubblica amministrazione.
A dimostrazione della difficoltà per il legislatore di tipizzare una condotta che bilanciasse correttamente esigenze di tutela della pubblica amministrazione e principio di legalità, sub specie di determinatezza e tassatività della fattispecie penale, l’abuso d’ufficio è passato dall’essere una clausola generale poi un’ipotesi residuale ed infine è stato espunto dall’ordinamento.
L’originaria formulazione dell’art. 323 del codice penale del 1930 puniva il (solo) pubblico ufficiale che, abusando dei propri poteri, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, commettesse qualsiasi fatto illecito non previsto come reato da una particolare disposizione di legge. Tale formulazione adempiva ad una funzione repressiva di chiusura dell’insieme dei reati dei pubblici amministratori, contribuendo alla ricerca di un’auspicata moralizzazione dell’attività della pubblica amministrazione. L’indeterminatezza della fattispecie – tanto rispetto alla condotta di “abuso”, quanto alla indiscriminata penalizzazione di ogni comportamento che non fosse già oggetto di altra previsione penale –lasciò ampio margine alla discrezionalità della magistratura consentendogli di sindacare anche scelte meramente discrezionali del pubblico ufficiale (e anche quelle condotte che, sul piano amministrativo, configuravano semplicemente eccesso di potere).
Con la riforma del 1990 (Legge n. 86 del 1990), il legislatore tentò (vanamente) una prima opera di precisazione della fattispecie, ampliando la platea dei soggetti attivi del reato ricomprendendovi (oltre ai pubblici ufficiali) anche gli incaricati di pubblico servizio ma punendo sic et simpliciter l’abuso del proprio ufficio, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto e se il fatto non costituisse più grave reato. La fattispecie divenne, quindi, ipotesi “sussidiaria” solo rispetto a quei reati sanzionati con maggiore severità, ma la sua struttura rimase sostanzialmente invariata, rimanendo infatti inalterato il problema relativo alla condotta (generica) di “abuso” penalmente sanzionato.
É solo con la riforma del 1997 (Legge n. 234 del 1997) che il legislatore riduce l’ambito applicativo della fattispecie, circoscrivendo in maniera dettagliata la condotta penalmente rilevante. Fermo restando il carattere sussidiario della norma, dal testo viene espunto il termine generico di “abuso”, sostituendolo con una più precisa e puntuale specificazione dello stesso, da rinvenirsi nella “violazione di norme di legge o di regolamento” o nella omissione “di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”. L’intento del legislatore era, ancora una volta, quello di arginare l’intervento del giudice penale escludendo dalla rilevanza penale la figura dell’eccesso di potere quale ipotesi di condotta abusiva (in quanto vizio attinente alla discrezionalità dell’attività amministrativa, e pertanto non rientrante nella fattispecie incriminatrice), onde evitare che lo stesso si sostituisse alla pubblica amministrazione in scelte di merito o comunque discrezionali.
Nel 2020 (art. 23 del D.L. n. 76 del 2020, convertito nella Legge n. 120 del 2020), l’abuso d’ufficio veniva nuovamente modificato restringendone sensibilmente l’ambito di applicazione, eliminando tra le condotte penalmente rilevanti la violazione delle norme regolamentari (che quindi non poteva più costituire reato), limitando così la condotta “abusiva” alla sola “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge” e soltanto nei casi in cui da tali regole “non residuino margini di discrezionalità”. Rimaneva intatta soltanto la violazione dell’obbligo “di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”.
L’eliminazione della violazione delle norme di regolamento e la previsione della violazione di legge soltanto ai comportamenti vincolanti da questa derivanti determinava una sostanziale “neutralizzazione” del controllo della magistratura, essendosi fortemente limitato l’ambito applicativo del reato.
Nonostante questa forte limitazione, con la c.d. “riforma Nordio” (Legge n. 114 del 2024), il delitto di abuso d’ufficio è stato abrogato completamente.
Tale abrogazione è stata ritenuta incostituzionale da diversi giudici di merito e finanche dalla Corte di cassazione che hanno sottoposto la questione all’attenzione del giudice costituzionale.
Con la sentenza n. 95 del 3 luglio 2025 la Corte costituzionale si è, quindi, pronunciata sulla legittimità dell’art. 1, comma 1, lett. b), della Legge 9 agosto 2024, n. 114, che aveva appunto abrogato il delitto di abuso d’ufficio.
La questione di legittimità era stata sollevata da diversi giudici di merito e dalla Corte di cassazione, per un totale di ben quattordici ordinanze di rimessione nelle quali si denunciava la violazione di alcuni parametri normativi di rango costituzionale. Si assumeva, in particolare, la violazione:
– degli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione in relazione agli obblighi discendenti complessivamente dagli artt. 1, 5, 7, par. 4, 19 e 65 della Convenzione ONU contro la corruzione, ratificata e resa esecutiva con la Legge 3 agosto 2009, n. 116 (c.d. Convenzione di Mérida);
– dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell’irragionevole esercizio del potere legislativo, da cui sarebbero derivate irragionevoli disparità di trattamento;
– dell’art. 97 della Costituzione sotto il profilo del vulnus di tutela rispetto ad aggressioni particolarmente gravi ai principi del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.
Come i più attenti interpreti avevano previsto, la Consulta – in applicazione del principio che vieta interventi della Corte in malam partem – ha ritenuto inammissibili tutte quelle questioni che, ove accolte, avrebbero comportato la reintroduzione di norme penali abrogate o l’estensione, in senso sfavorevole, di fattispecie vigenti, in contrasto con i principi di legalità e di irretroattività della legge penale sanciti dagli artt. 25, comma 2, Cost. e 7 CEDU.
Ciò in applicazione del principio di riserva di legge (corollario del principio di legalità, che fonda il diritto penale tutto), in virtù del quale è rimessa al Parlamento, che incarna la rappresentanza politica della Nazione, la discrezionalità in ordine a quali fatti debbano essere meritevoli di sanzione penale (in pieno accordo con il principio di extrema ratio che “governa” la scelta del tipo di sanzione da applicare in astratto ed in concreto).
La Corte ha, quindi, ribadito che solo e soltanto il legislatore ha il potere di perimetrare l’area del penalmente rilevante, incidendo così su quello che è il diritto fondamentale per eccellenza: la libertà personale (art. 13 Cost.), non avendo la stessa Corte il potere di incidere in senso peggiorativo sullo status libertatis delle persone (principio già affermato con la sentenza n. 148 del 1983 e successivamente ribadito con le sentenze n. 394 del 2006 e n. 236 del 2011).
L’unico intervento ammesso è quello che produce effetti in bonam partem, che si ha allorquando la Corte intervenga per espungere dall’ordinamento norme che contrastano con la Costituzione, con la conseguenza di ampliare l’area della liceità.
Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dai rimettenti in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., proprio in ragione dell’effetto in malam partem che sarebbe conseguito dal loro eventuale accoglimento. Più nello specifico, i giudici hanno rilevato che accogliere tali questioni avrebbe comportato la reviviscenza di una norma penale soppressa, “espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale”: ipotesi estranea ed ultronea al potere di controllo di legittimità costituzionale loro affidato, pena la trasformazione della Corte in un legislatore positivo in materia penale.
In particolare, quanto al sindacato ex art. 3 Cost., i giudici hanno ritenuto di non poter decidere in ordine alla ragionevolezza o meno della scelta legislativa portata alla loro attenzione. È vero che la discrezionalità del legislatore è soggetta ad un controllo costituzionale di tipo “forte” allorquando si tratta di scelte che restringono l’area del penalmente rilevante e quindi incidono in senso stringente e limitante sui diritti fondamentali della persona; il controllo è invece più “debole” “rispetto alle scelte di non punire determinate condotte in precedenza incriminate, pur lesive di interessi costituzionalmente rilevanti o comunque meritevoli di tutela, sempre che il legislatore appresti altri strumenti di tutela di tali interessi, nell’ottica dell’extrema ratio della tutela penale […]”.
Per la Corte, poi, è errata la qualificazione giuridica di “norma penale di favore” (cioè di norma che stabilisce un trattamento penalistico più favorevole nei confronti di determinati soggetti ed ipotesi rispetto ad altra norma incriminatrice) che alcuni rimettenti attribuivano all’art. 323 c.p. rispetto all’art. 353 c.p. (che punisce le turbative della gara in un pubblico incanto o in una licitazione privata) al di sotto della quale la giurisprudenza aveva ricondotto condotte parzialmente sovrapponibili a quelle che integrano le turbative d’asta.
Il sindacato costituzionale sulle “norme penali di favore” (che produrrebbe effetti in malam partem) è possibile solo quando esse convivano e siano compresenti nell’ordinamento con le norme generali o comuni; di talché l’abrogazione delle prime, fondata su una irragionevole ed ingiustificata disciplina derogatoria, fa riespandere automaticamente le seconde (di cui i destinatari erano già a conoscenza, in virtù del principio di prevedibilità in astratto ed in concreto del precetto e della sanzione penale, in applicazione dei principi costituzionali e CEDU).
La Corte ha sancito che non sussiste nessun rapporto di genere a specie tra le due norme prima menzionate e che, di conseguenza, “la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento (qual è il 323 c.p.), ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte”.
Quanto al sindacato ex art. 97 Cost., i giudici hanno ritenuto che nessun vulnus di tutela si sarebbe determinato in danno dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, ben potendo gli stessi essere tutelati a mezzo di una pluralità di strumenti alternativi, preventivi e sanzionatori diversi dal diritto penale.
In relazione alla dedotta violazione degli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione di Mérida, la Corte pur ritenendo la questione ammissibile (ben potendo, in astratto, esercitarsi un sindacato costituzionale sulla base dell’art. 117, comma 1, Cost.), l’ha comunque ritenuta infondata.
La Consulta ha infatti evidenziato che la Convenzione ONU, alla luce di un’interpretazione letterale e sistematica del complesso di norme portate alla sua attenzione, non impone al legislatore nazionale un obbligo di criminalizzazione ma un mero obbligo procedurale di “considerare” se condotte corrispondenti a quelle prima sanzionate penalmente dall’art. 323 c.p. possano essere introdotte nell’ordinamento interno.
Tale scelta deve essere fondata sia su ragioni di compatibilità del fatto da sanzionare con i principi generali dell’ordinamento penale nazionale, sia su ragioni di opportunità. Ed è quindi rimessa (di nuovo) all’esercizio del potere discrezionale del legislatore di ciascuno Stato firmatario la scelta sull’an ed il quomodo circa l’introduzione della norma penale sui fatti in questione. Pertanto, ciascuno Stato ha il potere di perseguire analoghe finalità – quali quelle di prevenire e contrastare il fenomeno corruttivo – attraverso lo strumento normativo che ritiene più idoneo ed opportuno, mediante fattispecie settoriali (corruzione, peculato, traffico di influenze, turbativa d’asta) o anche strumenti non penali (responsabilità amministrativa e disciplinare).
Ai sensi dell’art. 19 della Convenzione di Mérida, ciò che rileva “è che lo Stato firmatario adempia l’obbligazione di valutare attentamente la possibilità di dotarsi dell’incriminazione in parola […], non vi è alcuna ragione per ritenere che, una volta compiuta – prima o dopo la ratifica della Convenzione – la scelta di incriminare le condotte di abuso d’ufficio, lo stesso art. 19 precluda allo Stato di ritornare sui propri passi, e di riconsiderare i pro e i contra dell’incriminazione, eventualmente pervenendo alla conclusione di abolirla”. Di conseguenza, non può ritenersi esistente nemmeno un vincolo di “stand still”, ossia di conservazione della fattispecie dell’abuso d’ufficio e di “non regressione” nella tutela penale: la scelta del legislatore di espungere la norma dall’ordinamento non integra, dunque, una violazione costituzionalmente rilevante poiché, a monte, non esiste alcun divieto di abrogazione.
In conclusione, mentre rientra nella discrezionalità del legislatore la decisione in ordine alla previsione dei comportamenti penalmente rilevanti (con scelta insindacabile da parte della magistratura), non viene comunque meno il dovere di quest’ultima di accertare gli illeciti penali che potranno essere sussunti sotto altre fattispecie criminose ancora vigenti, non essendo escluso che, espunto l’abuso d’ufficio (“reato-spia” di possibili più gravi fatti corruttivi), condotte analoghe a quelle prima sanzionate dall’abrogato art. 323 c.p. potranno essere qualificate quali più gravi reati.