Il significato sottotraccia della riforma della giustizia: dalla marginalizzazione all’esautoramento del Parlamento


Dopo la Camera dei deputati, anche il Senato della Repubblica, lo scorso 22 luglio ha evaso, in prima lettura, il disegno di legge costituzionale del Governo sulla c.d. “separazione delle carriere”.

Invero, come è già stato scritto su queste colonne, l’intervento riformatore non si limita a separare le carriere dei magistrati, giudici e pubblici ministeri, ma interviene profondamente anche sul sistema di autogoverno, prevedendo due distinti consigli superiori e introducendo il sistema del sorteggio per la selezione dei rispettivi componenti, e sulla giurisdizione in materia disciplinare, sottraendola al CSM e attribuendola a un organo di nuovo conio denominato “Alta Corte disciplinare”.

In attesa degli altri due timbri parlamentari, la cui apposizione è prevista per l’autunno, il dibattito tra le forze politiche è già da tempo proiettato sul referendum confermativo che si svolgerà nel 2026 se, come è ritenuto scontato, il sigillo parlamentare non sarà supportato, in ciascuna Camera, dalla maggioranza dei due terzi.

È scesa in campo, naturalmente, anche l’ANM. Lancia in resta, pretermettendo le posizioni della minoranza interna e obnubilando l’esito di una recente consultazione degli iscritti sul metodo del sorteggio per la selezione dei componenti del CSM, l’Associazione cui aderiscono la gran parte dei magistrati italiani attacca in toto la riforma.

Le accuse sono quelle di volere sottoporre il pubblico ministero all’esecutivo, di volere sottrarre i “poteri forti” al controllo di legalità, di volere trasformare il pubblico ministero in avvocato della polizia dedito esclusivamente a conseguire la condanna dell’imputato e, più in generale, di tradire i principi di autonomia e indipendenza della magistratura. In breve, la riforma è tacciata di attentare allo stato di diritto.

Lo stile è quello della politica degli slogan tanto suadenti o allarmanti quanto immotivati, adottato nella convinzione, probabilmente esatta (purtroppo!), che in tal modo si faccia presa sull’opinione pubblica ben più che con argomenti logici e ragionati.

Peraltro, sebbene le criticità non manchino, quelli agitati dall’ANM sono spauracchi privi di reale consistenza.

La separazione delle carriere, come disegnata dalla riforma, non sottopone il pubblico ministero all’esecutivo né rappresenta il primo passo verso tale meta in quanto crea un ordine dei pubblici ministeri che, al pari di quello dei giudici, si auto-amministra in modo completamente indipendente dal governo.

Il sorteggio dei componenti del CSM, vero e proprio fumo negli occhi degli apparanti correntizi, non indebolisce il Consiglio e non umilia i magistrati ma, semmai, rafforza l’uno e gli altri, contrastando il giogo partitico-correntizio sull’autogoverno e valorizzando il ruolo e la dignità dei singoli magistrati.

L’Alta Corte non è altro che il frutto avvelenato, ma del tutto naturale, della protervia miope con la quale gli apparati magistratuali, sia a livello istituzionale che politico-associativo, hanno preteso e difeso il vigente sistema disciplinare, contrassegnato da una giurisdizione speciale, quella della Sezione disciplinare del CSM, che fa a pugni, tra l’altro, con l’espresso divieto costituzionale in materia. Quanto meno, con una “Alta Corte” nettamente distinta dagli organi di amministrazione, prevista dalla Costituzione, si supera un’evidente incostituzionalità e si consegue un recupero in termini di imparzialità del giudice disciplinare.

Dunque, se la Riforma, contenutisticamente, non appare affatto quell’apocalisse annunciata dai suoi detrattori, il vero allarme viene, invece, dal metodo che le forze di maggioranza hanno deciso di adottare per conseguire il risultato voluto.

Il testo predisposto dal Governo, come è entrato alla Camera dei deputati, così è transitato verso Palazzo Madama e da qui, intonso, è tornato verso Montecitorio.

Quello della riforma Nordio sarà un percorso netto, essendo evidente che non c’è alcuna possibilità di modifiche nel corso della seconda tornata di votazioni.

Sarà la prima volta che un disegno di legge di revisione costituzionale e, in particolare, un disegno di legge del Governo, viene approvato dal Parlamento senza alcuna modifica.

Ma ad allarmare non è l’assenza in sé di modifiche bensì il fatto che il percorso parlamentare della proposta governativa, anche grazie all’impiego di specifici marchingegni regolamentari – fino a giungere, a Palazzo Madama, all’esame in assemblea prima dell’esaurimento della discussione in commissione – si sia svolto eludendo ogni possibilità di modifica e, ancor prima, ogni possibilità che la discussione e il confronto potessero provocare modifiche a un testo apparso blindato all’origine.

Si tratta di un azzardo.

La Corte costituzionale è stata in più occasioni investita della questione del rispetto del ruolo sostanziale delle istituzioni parlamentari nell’adozione degli atti legislativi e, in particolare, della violazione dell’iter procedurale previsto dall’art. 72 Cost., il quale prevede che, per alcune tipologie di leggi, tra le quali quelle di revisione costituzionale, l’esame da parte delle Camere si svolga sempre seguendo il procedimento ordinario previsto dallo stesso articolo.

Ciò è accaduto con riferimento alle leggi di approvazione del bilancio annuale, anch’esse ricomprese tra quelle per le quali è prescritto l’iter anzidetto.

La Consulta ha affermato la “necessità che il ruolo riservato dalla Costituzione al Parlamento nel procedimento di formazione delle leggi sia non solo osservato nominalmente, ma rispettato nel suo significato sostanziale”; ha osservato che i paletti e i passaggi procedimentali stabiliti dall’art. 72 Cost. “sono volti a consentire a tutte le forze politiche, sia di maggioranza sia di minoranza, e ai singoli parlamentari che le compongono, di collaborare cognita causa alla formazione del testo, specie nella fase in commissione, attraverso la discussione, la proposta di testi alternativi e di emendamenti”; ha sottolineato che tali passaggi “scandiscono alcuni momenti essenziali dell’iter legis che la Costituzione stessa esige che siano sempre rispettati a tutela del Parlamento inteso come luogo di confronto e di discussione tra le diverse forze politiche, oltre che di votazione dei singoli atti legislativi, e a garanzia dell’ordinamento nel suo insieme, che si regge sul presupposto che vi sia un’ampia possibilità di contribuire, per tutti i rappresentanti, alla formazione della volontà legislativa” e, in tale contesto, ha riconosciuto anche ai singoli parlamentari la legittimazione a sollevare, di fronte alla stessa Corte, conflitto di attribuzioni per denunciare la violazione delle loro prerogative costituzionali in relazione all’osservanza dell’iter legislativo ordinario previsto dalla Costituzione.

Se, come è stato osservato dal Giudice delle leggi, “ciò vale in particolare in riferimento all’approvazione della legge di bilancio annuale, in cui si concentrano le fondamentali scelte di indirizzo politico e in cui si decide della contribuzione dei cittadini alle entrate dello Stato e dell’allocazione delle risorse pubbliche”, a maggior ragione deve valere in riferimento alle leggi di modifica della Costituzione.

Indubbiamente, infatti, tali leggi rappresentano il compito più significativo che la stessa Costituzione assegna alle Camere.

Vero è che, finora, nelle occasioni in cui la questione è stata portata alla sua attenzione, la Corte ha stoppato il conflitto in sede di ammissibilità.

Si è trattato di casi riguardanti, come detto, l’approvazione della legge di bilancio e la considerazione che i lavori si erano svolti – per vari fattori, connessi, oltre che alle tipiche scansioni del procedimento di adozione della legge di bilancio, anche alla necessità di interlocuzione con altre istituzioni – “sotto la pressione del tempo” ha indotto la Corte a escludere che le pur registrate compressioni della funzione costituzionale dei parlamentari avessero determinato “un abuso del procedimento legislativo tale da determinare quelle violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari che assurgono a requisiti di ammissibilità” del conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.

La stessa Corte, tuttavia, ha affermato che “in altre situazioni una simile compressione potrebbe portare a esiti differenti”.

Orbene, “altre situazioni” ben potrebbero riguardare leggi di revisione costituzionale ed è assai arduo, con riferimento a tali leggi, anche solo ipotizzare che possano assumere rilevanza fattori connessi alla “pressione del tempo”.

In tale ambito, infatti, non solo non vengono in gioco i fattori temporali previsti per l’approvazione delle leggi di bilancio ma, addirittura, la Costituzione valorizza, proprio con specifico riferimento al fattore tempo, la particolare necessità di adeguata ponderazione, laddove prescrive, tra le due necessarie deliberazioni da parte di ciascuna Camera, un intervallo minimo di tre mesi.

Al di là del merito della riforma, non si può allora escludere che, prima ancora del referendum, possa essere denunciato mediante conflitto di attribuzioni e portato al vaglio della Corte costituzionale l’iter procedurale che ha contrassegnato i lavori parlamentari.

Certo è che il varo di una così importante riforma della Costituzione che ha visto le Camere non solo non modificare il progetto governativo ma private della stessa possibilità di incidere sul suo contenuto, risolvendosi i passaggi parlamentari in meri orpelli burocratico-procedurali, segna, di fatto, il passaggio dalla fase della marginalizzazione del Parlamento, da tempo denunciata da molteplici voci e in plurime sedi senza sostanziali risultati, a quella del suo completo esautoramento.

La diffusa consapevolezza della sostanziale irrilevanza del percorso parlamentare della riforma e del suo ineluttabile destino referendario è sintomo dell’ormai conclamata obsolescenza del sistema parlamentare e dell’ormai vigente populismo plebiscitario.

Il dato, che qui semplicemente si rileva, apre ovviamente enormi e variegate questioni, molto preoccupanti, neppure minimamente affrontabili in questa sede.

Ma chissà che, in limine, per le ragion cui sopra si è fatto cenno, non si assisterà, con un intervento della Corte costituzionale sull’iter procedurale di approvazione della Riforma della giustizia, a un colpo di coda del Sistema parlamentare con effetto di potenziale azzeramento della stessa Riforma.

Giuliano Castiglia

Magistrato tributario, già giudice ordinario

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

© Copyright 2024 | Dimensione Informazione
Tutti i diritti riservati

Privacy Policy Cookie Policy Cambia preferenze

Contatti:
Viale Giuseppe Mazzini, 134 - 00195 Roma
Telefono: 06.37516154 - 37353238
E-mail: redazione@dimensioneinformazione.com