Intervista a Luigi Abete, Presidente BNL – Gruppo BNP Paribas
Il governo è alle prese con la definizione della legge di bilancio. Da una prima lettura dei provvedimenti, sembrerebbero insufficienti sia gli interventi sul taglio del cuneo fiscale, sia le misure per il rilancio degli investimenti e la ripresa dell’occupazione
Non sono d’accordo. Più che sulla “dimensione”, io privilegerei la “qualità” delle misure. È su questo secondo fronte che suggerisco di concentrare e tenere desta l’attenzione. Anche perché ciò che conterà sarà il testo finale che sarà approvato in Parlamento. Nell’insieme, se faccio riferimento alla NaDEF (ndr: la Nota di aggiornamento al DEF) diffusa ai primi di ottobre mi sembra che la scelta del Governo sia quella di optare per una finanziaria prudente. Il punto è che la prudenza non si trasformi in debolezza. In maggiore dettaglio, il deficit programmatico per il 2020 viene dimensionato al 2,2% del PIL su un tendenziale realisticamente stimato nell’1,4% del prodotto. Il problema è che lo spazio espansivo viene in gran parte mangiato dai 23 miliardi necessari ad evitare l’aumento dell’IVA. Per disinnescare la clausola di salvaguardia, provvedere alle spese indifferibili e dare un piccolo segnale espansivo sul piano del cuneo fiscale il vincolo finale sta nel trovare ulteriori risorse che vengono stimate in non meno di 14 miliardi. I numeri parlano. Non sarà certo questa, per dimensioni, una finanziaria di rilancio. Potrà essere, però, una finanziaria di indirizzo, che restituisce fiato e prospettive all’azione di politica economica. Bene aver fissato alcune direttrici industriali di sviluppo. Penso al “Green New Deal”. Bene esserci riagganciati all’Europa, e aver grazie a questo rimosso quella “tassa sull’isolamento” che il mercato ci ha prezzato addosso per oltre un anno. Guardi che avere il rendimento sul BTP decennale a 0,80% invece che 2,80% fa parecchia differenza. Sono 200 centesimi di tasso che nell’arco di dodici mesi vogliono dire 4 miliardi di interessi in meno da pagare sul debito pubblico, ceteris paribus. Quattro miliardi non sono pochi.
Il Centro Studi di Confindustria propone che ai redditi fino a 28 mila euro venga applicata l’aliquota (più bassa) del 23%, al fine di liberare maggiori disponibilità in riferimento ai redditi minori.
Ridare fiato ai consumi attraverso maggiori redditi in mano a strati della popolazione che, verosimilmente, hanno una maggiore propensione al consumo mi sembra un’idea sensata. Tuttavia, in presenza di vincoli molto stringenti sulle risorse disponibili, credo che l’intervento sul cuneo si rivelerà più graduale di quanto ipotizzato dal CSC. E, oltre a pensare ai consumi di chi un’occupazione stabile già la ha, io credo che gli incentivi dovrebbero rivolgersi alla rimozione degli eccessi di precarietà che ancora penalizzano la lunga e tribolata fase di ingresso sul mercato del lavoro dei nostri giovani. In Italia dobbiamo ricucire la coesione tra le generazioni. È un gradiente della crisi demografica. Alcune elaborazioni condotte da Servizio Studi di BNL su dati Istat dicono che negli ultimi dieci anni la perdita di reddito dei capifamiglia under-35 si è rivelata tripla rispetto a quanto registrato dai capifamiglia con età compresa tra i 55 e i 64 anni. Impoverimento e diseguaglianze crescenti sono le cause dei populismi. Sta in noi rimettere in moto la crescita lavorando su ambo i binari, giovani e meno giovani, poveri e meno poveri. Altrimenti il treno, facilmente, tornerà a deragliare.
Il governo punta molto sul recupero dell’evasione fiscale attraverso la lotta all’uso del contante e gli incentivi ad avvalersi dei mezzi di pagamento elettronici. Diversi esperti sono tuttavia scettici sul successo di queste iniziative. Non sembra comunque l’ennesimo regalo al sistema bancario?
Mi perdoni, ma non capisco proprio la storia del regalo alle banche. Anzi, mi sembra che gli eventuali nuovi incentivi ovvero obblighi a pagamenti con carte di credito, si dice, debbano avvenire a commissioni zero per le banche. Più seriamente, chi vuole formulare cautela può farlo sulla dimensione dei sette miliardi previsti come recupero di evasione per l’anno 2020. Forse tanti. Ma io sono fiducioso, perché la strada della tracciabilità dei pagamenti e della trasparenza digitale è ormai segnata. Non si può tornare indietro. Ovviamente, nel rispetto della tutela della riservatezza dei contribuenti, ma nella assoluta consapevolezza che un paese a corto di risorse non può tollerare un ammanco di gettito che l’ultima “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva” stima alla bellezza di 107,5 miliardi di euro, di cui ben 35,2 miliardi solo di IVA. Come dire, se pagassimo tutti l’IVA dovuta, oggi non avremmo difficoltà a spesare il disinnesco della clausola di salvaguardia. E avanzerebbero pure risorse da mettere sul rilancio di investimenti e consumi.
Quanto incide la riforma della giustizia, civile e penale, sull’attrazione degli investimenti esteri per lo sviluppo dell’economia nazionale?
Moltissimo. Il “legal risk”, i tempi lunghi e le incertezze della giustizia italiana ci penalizzano enormemente nella capacità di attrarre investimenti dall’estero. E il risultato sta nei numeri che dicono come negli ultimi dieci anni l’Italia è riuscita ad attrarre in media ogni anno l’1,4% del totale degli investimenti diretti esteri effettuati a livello mondo contro il 2% di Francia e Spagna. È un elemento che, purtroppo, mi capita di riscontrare di frequente, nei miei incontri e rapporti come imprenditore e banchiere. Del resto, sono gli stessi dati della Banca Mondiale a ricordarcelo: da noi un primo grado civile dura, in media, il doppio che in Serbia. In Serbia, non in Francia. Speriamo che la nuova riforma in discussione porti miglioramenti. Ma bisogna fare attenzione ad alcuni pregiudizi ideologici. Servono meno ideologia, e più digitalizzazione, direi.
La Francia ha notoriamente un sistema burocratico complesso, ma efficiente. Perché in Italia, per quanto da decenni vengano sbandierati interventi normativi di riorganizzazione della pubblica amministrazione e semplificazione delle procedure, si continua a combattere con lungaggini, malcostume ed altre criticità?
Vede, non è che in Francia non esistano scandali e corruzione. Il sistema è complesso. Nella mia esperienza, direi forse che la sanzione reputazionale che la società attribuisce alla devianza è forse più alta da loro che da noi. Ma, come diceva Mario Monicelli, loro hanno avuto la rivoluzione e noi no. Loro sono un po’ più cittadini e po’ meno sudditi di quanto siamo noi. Sul piano della pubblica amministrazione, un punto di forza francese sta nella preparazione, nell’istruzione del suo ceto dirigente. Non è solo la questione delle elite che escono dalle “grandes ecoles”. È anche un sistema che, come io ho sempre sostenuto, ha saputo fare più Stato e più Mercato, insieme. E che, anche per questo, si ritrova oggi a crescere poco, ma molto di più non solo dell’Italia, ma anche della Germania.
La guerra dei dazi fra USA, Cina e Europa sta causando pesanti tensioni sui mercati finanziari e delle commodities
Purtroppo, le trade-wars, le guerre dei dazi sono solo un capitolo della grande crisi geopolitica in cui viviamo. Parlo per passaggio del testimone – se mai ci sarà – tra USA e Cina nella leadership globale del pianeta. Una leadership che va ben oltre la questione dell’interscambio e abbraccia temi quali il primato nelle tecnologie più avanzate e il mai passato di moda predominio militare Non dimentichiamo che la Cina ha in dieci anni raddoppiato le proprie spese militari, per un importo pari a 250 miliardi di dollari. Tornando ai dazi, tra i due litiganti che sono USA e Cina chi non gode, ma soffre di più siamo proprio noi europei, campioni di un modello di crescita di vecchio stampo tirato essenzialmente dall’export. Un export che pesa per il quaranta per cento del PIL in Germania e per oltre un quarto del prodotto in Italia. Quindi, dalla guerra dei dazi uno stimolo in più all’Europa per innovare, per cambiare.
Come andrà a finire con la Brexit? Il conto sarà più salato per il Regno Unito, o per i 27 europei?
Sinceramente, non lo so. Quando rispondo a questa intervista mancano ancora due settimane alla data del 31 ottobre, oltre la quale potrebbe materializzarsi una Brexit senza accordo, una “hard Brexit”. Francamente, un’ipotesi sciagurata dalla quale tutti, in primis gli inglesi, avranno da perdere.
Una proposta di Luigi Abete al governo per il rilancio dell’economia
A questa ultima domanda, mi consenta di non dare una risposta. Io da sempre sostengo che, in un mondo che cambia alle velocità e nelle dimensioni che conosciamo, nessuno è Mandrake. Non c’è soluzione miracolosa o formula magica. Ottanta euro, reddito di cittadinanza o quota cento che tenga. Io augurerei all’Italia, al suo ceto dirigente e alla sua economia solo una cosa. Tanto studio. Consapevolezza dei problemi e della complessità delle interrelazioni. E tanto, ordinario, buon senso e buon governo. Avanti, Italia!